La tenerezza del ferro

Un campo riarso, avvampato, dove monconi neri segnano i confini di un incendio: non è una periferia pasoliniana, ma un'area per la demolizione di auto sul limitare della città. Un giorno è successo che le macchine, i copertoni, la baracca, l'ammasso di lamiere e i campi intorno hanno preso fuoco. Quel giorno la quotidianità è diventata cronaca, e la cronaca è diventata arte. E' bastato che degli sguardi, quelli di Carlo Cantini e di Ines Lenz, si incrociassero, si parlassero perché dei lacerti bruciati, dei ferri contorti diventassero storie nella storia, vegliati dal cielo terso come una lastra d'ametista. Quando l'immagine isola una parte del reale o anche solo una sua idea, e ne realizza una sorta di metamorfosi visiva, ecco, ci sono buone probabilità che tutto ciò diventi arte. Le fotografie di Cantini sono prelievi di memoria dal corpo esausto della realtà.

Dal momento che, come scrive Roland Barthes, "Nella foto, la pipa è sempre una pipa, inesorabilmente", bisogna astrarre l'oggetto dal suo contesto, perché l'immagine assuma un diverso significato, perché, insomma diventi un simbolo. Ed è proprio ciò che fa Cantini, ritraendo le superfici delle lamiere contorte dal calore, dove la vernice bruciata crea, insieme alle ossidazioni e alla ruggine, delle infiorescenze policrome, o dei segnali per inseguire una possibile storia. La casualità dell'evento è il pretesto per un'azione volontaria di riconoscimento delle forme: matasse di fili di ferro arrugginite creano una trama di segni che sembrano ancora incandescenti; viti, bulloni, rondelle e altre parti meccaniche si dispongono cromaticamente a formare delle composizioni dove avverti la tenerezza dello sguardo che accoglie la diversa vita di questi elementi. Sono reperti di un mondo che è transitato dall'ordinario allo straordinario. Percorso di estrema coerenza anche per Ines Lenz, che dalla pratica pittorica e dall'incisione, ha dato vita di movimento agli stessi materiali fotografati da Cantini. Il suo video accarezza le superfici combuste, ne scopre il fascino materico, come nei dipinti e nelle acqueforti, dove esplorava la pelle e la sostanza delle cose. L'artista svizzera riesce a dare una continuità non cronologica a queste sculture residuali, perché sfilino davanti a noi raccontando la loro storia che storia non è, poiché l'assenza di un tempo narrativo le proietta in un continuum temporale. Come lo scorrere della lava crea paesaggi inattesi e irreali, il movimento di camera della Lenz lascia dietro di sé una scia di forme probabili, una traccia che si incide nella mente quale ricordo primordiale, certificato da poche parole attonite che si mescolano con i suoni, i rumori della città, il frastuono del nulla.

Firenze, Maggio 2015

Nicola Nuti