ROBERT GLIGOROV
Nepente

L'artista Robert Gligorov, macedone di origine ma internazionale per fama, torna a Firenze dopo diversi anni, nello spazio della Corte di Rosanna Tempestini Frizzi, a lui congeniale e nel quale ha realizzato strepitose installazioni. Gligorov nel corso della sua attività sperimenta con costanza e libertà linguaggi ed esperienze molto diverse. Illustratore, performer, utilizza il video e la fotografia, l'istallazione e la pittura piegandoli alle esigenze di una ricerca che sempre si misura con i limiti e le ambiguità della rappresentazione. La sua è un'indagine che non può non fare i conti con l'immagine dell’artista stesso, tra i luoghi più frequentati della sua pratica dell'arte, sempre indisciplinata, impertinemte, comunque attenta ai paradossi del presente.

La forza e la violenza che Gligorov usa in certe sue immagini sono dovute al fatto che l'opera ha bisogno di superare certi confini per essere vista. L'artista in qualche modo alza il tiro, aumenta i confini di ciò che è visibile e tollerabile. Svela l'invisibile, come si suol dire, e con audacia apre nuove strade alla creatività. L'esercizio mentale di Gligorov è quello di non fare un oggetto artistico bensì riconoscere all'arte la capacità di renderci più coscienti dei nostri sentimenti e della nostra anima, mentre le nostre vite sono il più delle volte una costante evasione da noi stessi. Da numerosi suoi lavori traspare l'esplorazione sulla sicurezza, il pericolo, la dipendenza, il dramma di una identità emergente nel chiedersi costantemente non solo cosa accade nelle nostre esistenze ma anche cosa stiamo diventando.

La carne di Gligorov


“l'Urlo di Munch non c'era più, era stato rubato. Sulla parete del Munchmuseet era rimasto solo l'alone che ne sottolineava l'assenza, eppure i visitatori facevano lo stesso la coda per stare lì davanti” ci dice Robert Gligorov per spiegare come mai non cambia niente se almeno la grande installazione che copre tutta la parete di fondo della Galleria La Corte di Rosanna Tempestini, a Firenze, dovrà essere smontata nel giro di un giorno o due e sostituita dalla sua fotografia: “La decomposizione comincia con la nascita e qui se ne consuma l'ultimo atto. Anche le sculture romane si sono deteriorate, hanno perso nasi e braccia. Quanto debba durare un'opera non lo so e non mi interessa”. Le fette di carne cruda che tappezzano la parete della galleria, il “muro del pianto”, emanano un forte odore ormai decisamente prossimo al puzzo: “Il titolo non ha niente a che fare con il luogo caro alla religione ebraica, tutta quella carne vuole essere un richiamo alla fragilità dell'uomo. E poi io sono macedone, provengo da uno di quei luoghi dell'est europeo che tanto dolore e massacri hanno visto nella nostra storia recente: in fondo mi sento in colpa per averli evitati, un po' come in colpa si sentivano gli ebrei che erano sopravvissuti agli orrori del nazismo”. La sua arte comunque privilegia ancora l'oggetto: “L'arte è oggi soprattutto un'esperienza e spesso sta negli occhi di chi la guarda, ma io in qualche modo sono ancora legato all'arte del passato. Nel contemporaneo l'arte è tutto ed il contrario di tutto, è una sensazione forte che colpisce lo stomaco, è una cosa facile, immediata, anche banale se si vuole. Eppure anche profonda”.

Gianni Caverni

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